Approfondimenti

I primi 40 anni del telefonino

telefoninoIl 3 aprile del 1973, Martin Cooper, un ingegnere della Motorola, fece la prima telefonata con un cellulare.

Sono passati 40 anni e il telefono cellulare è diventato uno degli oggetti più utilizzati del mondo. Ormai, per moltissimi, è semplicemente inimmaginabile fare anche solo un passo senza il proprio telefonino.

Lo si porta ovunque, al lavoro come al supermercato, e a casa, in tanti, stanno ben attenti a tenerlo vicino anche se devono semplicemente andare alla toilette o spostarsi da una stanza all’altra della propria abitazione.

Il cellulare ha stravolto le abitudini individuali e le aspettative sociali. Se prima della diffusione dei telefoni fissi si comunicava per lettera, attendendo magari per mesi una risposta, oggi le comunicazioni sono per lo più immediate.

Ma il telefonino è anche uno degli strumenti più controversi, perché se da un lato ci ha aperto la strada a comunicazioni facili e immediate, dall’altro ha fortemente ridotto i nostri spazi di riservatezza.

Riuscire a mantenere uno spazio privato, sottraendosi alle chiamate, è diventato psicologicamente sempre più difficile. Certo, è sempre possibile spegnere il cellulare, o magari filtrare le chiamate, decidendo se, quando e a chi rispondere, ma l’aspettativa sociale tende a richiamarci a una sorta di nuovo obbligo di permanente reperibilità.

Pro e contro dell’innovazione tecnologica portano così a un complicato intreccio di desideri, possibilità e aspettative, senza consentirci mai di capire se davvero certi prodotti hanno migliorato la nostra qualità di vita
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Le ragioni dell’intervento francese in Mali

Intervento francese in maliL’intervento francese in Mali è uno dei grandi temi della politica internazionale. Questa nuova guerra suscita sicuramente meno dibattito di quelle in Libia e Afghanistan.

Non ci sono di mezzo gli Stati Uniti, con la conseguenza che tutto quel mondo di gruppi e associazioni che sembrano sapersi mobilitare solo in funzione anti-americana, tace.

Ufficialmente, i francesi sono intervenuti, su richiesta del governo del Mali, per impedire ai fondamentalisti islamici di conquistare la grande Bamako e sconvolgere l’apparente stabilità della nazione.

Dietro il consenso quasi unanime all’intervento francese in Mali da parte di politici e giornalisti, e della stessa opinione pubblica, ci sono però molti altri motivi, probabilmente prevalenti.

Olivier Roy, direttore dell’EHESS, École des hautes études en sciences sociales, esamina nel dettaglio le motivazioni dell’intervento francesi in Mali in un articolo pubblicato su Le Monde.

Tra le ragioni profonde dell’intervento francese in Mali, indica il bisogno di François Hollande di profilarsi come un “vero” capo, replicando alla “guerra di Sarkozy” in Libia, con una sua guerra, realmente “giusta” e “necessaria”.

Le forze della sinistra francese lo appoggiano senza troppi distinguo. Ma ad appoggiare l’intervento francese in Mali ci sono anche i partiti della destra, ben felici di poter tornare a cavalcare la retorica del “pericolo islamista”, dopo un paio di anni nei quali la primavera araba sembrava aver spazzato via la già scarsa credibilità dei teorici della “guerra delle civiltà”.

Il pericolo islamista fa comodo non solo alla destra identitaria, patriota, nazionalista, ma anche alla sinistra laica, ben disponibile a riposizionarsi in chiave anti-fondamentalista.

Se la guerra in Libia può essere liquidata, dai critici di Sarkozy, come una missione avventurosa e dalle conseguenze ancora incerte, quella in Mali sembra prestarsi a una più rassicurante catalogazione, a metà strada tra la tutela dell’integrità territoriale di uno Stato sovrano e la lotta all’espansione delle forze fondamentaliste.

L’altro motivo dell’intervento francese in Mali ha strettamente a che fare con l’enormità dell’apparato militare di Parigi. La Francia, infatti, mai guarita dalla sua irragionevole ambizione di “grandeur”, conserva uno degli eserciti più grossi e costosi del mondo.  Un po’ come negli Stati Uniti, queste sbalorditive spese militari vanno in qualche modo giustificate dinanzi all’opinione pubblica.

Per Roy, si tratta anche di andare incontro al potere, al prestigio e alle aspettative delle alte gerarchie militari francesi, apparentemente ancora legate a una visione coloniale e civilizzatrice dei conflitti. Umiliati in Afghanistan da un ruolo subalterno alle truppe statunitensi, le forze di terra francesi colgono nella guerra in Mali la possibilità di ribadire la propria importanza e allontanare i timori di una possibile riduzione delle spese militari.

 

Una guerra difficile

La guerra in Mali rischia di essere molto più complicata di quanto appaia. Un po’ come per le rivoluzioni della primavera araba, c’è una differenza notevole tra la storia romanzata e politicizzata somministrata all’opinione pubblica, e la realtà geografica, sociale ed economica di un certo territorio.

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Mali 17.570692, -3.996166

 

Dietro l’apparenza di una pericolosa insurrezione islamista contro un governo legittimo, si celano conflitti sociali che nulla hanno a che vedere con la religione.
Se in Paesi come l’Egitto e la Tunisia la primavera araba sta portando a risultati deludenti per chi era sceso sulle strade e nelle piazze, è perché i giovani arabi, prima che alla libertà e alla democrazia, ambiscono a poter godere dello stesso benessere materiale che percepiscono quando guardano ai loro coetanei europei o americani. Analogamente, in Mali, a combattere contro il governo in carica, magari sotto la stessa bandiera dell’islamismo, si trovano decine di migliaia di giovani alla ricerca di un qualche tipo di opportunità.

Sconfitti i registi politici dell’insurrezione in Mali, resteranno nel Paese, irrisolti e forse irrisolvibili, tutti i problemi economici e sociali che hanno reso possibile l’ascesa dei ribelli.

Il punto su matrimonio e unioni civili in Europa

Unioni civili e matrimonioUnioni civili e matrimonio tradizionale continuano a far discutere l’Europa. Ad oggi, cinque Paesi dell’Unione Europea, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia, hanno autorizzato i matrimoni tra partner dello stesso sesso.

Gran parte dei Paesi europei hanno riconosciuto, seppur in forme e con modalità diverse, le cosiddette unioni civili registrate, equiparandole, in parte o in tutto, al matrimonio.

I Paesi europei che non prevedono una forma di unione civile aperta alle coppie omosessuali e tendenzialmente equivalente al matrimonio, sono Bulgaria, Cipro, Estonia, Grecia, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Malta, Polonia, Romania e Slovacchia.

Il rapporto tra unioni civili e matrimonio, e il riconoscimento pubblico delle relazioni stabili tra coppie omosessuali assumono rilievo in un numero considerevole di materie di diritto civile e amministrativo, quali, ad esempio: successione ereditaria, diritto di scelta e fine vita, comunione dei beni, agevolazioni fiscali, riconoscimento dei figli del partner, adozione, obblighi alimentari, ricongiungimenti familiari e diritti di soggiorno in Paesi terzi.

Nei Paesi più restii a riconoscere un rilievo pubblico alle unioni di fatto, Italia inclusa, esistono sovente anche vincoli di carattere costituzionale. Nella Costituzione italiana, l’art. 29 definisce la famiglia come una “società naturale fondata sul matrimonio“. I giudici costituzionali hanno ritenuto compatibile con la Costituzione una regolamentazione delle unioni omosessuali, in base all’art. 2, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Le unioni omosessuali rientrerebbero proprio in quest’ultima definizione.

Il dibattito politico si perde spesso dietro a diatribe ideologiche e ha portato in Europa a una serie di legislazioni variegate e non di rado contraddittorie.

Una  lettura liberale della questione, implica essenzialmente due riflessioni.
Da un lato, se la funzione dello Stato è quella di rafforzare le libertà individuali, difendendole dai rischi derivanti da una totale assenza di regole, si deve riconoscere che quando tali regole imprigionino ingiustificatamente la vita del singolo, esse finiscano con l’essere illiberali.
Che diritto ha uno Stato di impedire a due persone che si amano di poter condividere beni, scelte mediche, diritti di proprietà?
Dall’avvento delle democrazie rappresentative, i parlamenti nazionali si sono dimostrati tutti affetti dal virus della bulimia legislativa, producendo fisiologicamente troppe leggi. Al tempo stesso, la sovra-produzione di leggi e regolamenti, divieti e oneri burocratici, ha trasformato l’assenza di una legislazione sulle coppie omosessuali nell’impossibilità di esercitare una gran quantità di libere scelte, in materia successoria, sanitaria, migratoria, ecc.
Senza una legislazione apposita, le coppie omosessuali continueranno a essere ingiustamente discriminate.

D’altra parte, riflettendo su unioni civili e matrimonio, occorrerebbe prudenza e attenzione nello stabilire quali debbano essere le caratteristiche del nuovo rapporto giuridico riconosciuto dallo Stato. L’estensione, sic et simpliciter, del diritto matrimoniale, pur se prevista in qualche Stato, rischia di essere illogica e inutilmente costosa per la collettività.

In effetti, in Europa, una parte considerevole dei vantaggi legislativi riconosciuti alle coppie eterosessuali unite in matrimonio, deriva dall’evoluzione secolare della concezione di famiglia. Infatti, sono l’attitudine e l’idoneità, teoriche, alla procreazione a giustificare il trattamento più favorevole riservato dalle leggi di molti Paesi alle coppie sposate, rispetto ai singoli.

In alcuni Stati, le agevolazioni fiscali sono strettamente correlate all’attuale esistenza di figli a carico, mentre, in altri, le agevolazioni sono legate automaticamente all’esistenza del matrimonio ed eventualmente rafforzate in presenza di figli.

La cura, l’educazione e la crescita di un bambino hanno costi che, in qualche misura, gli Stati decidono di sostenere.

Da qui, possiamo arrivare a una domanda essenziale. Cos’è oggi la famiglia. Intesa come cellula primaria di una comunità, la famiglia si qualifica come tale non tanto perché fondata su un matrimonio, quanto piuttosto per la presenza di figli, naturali o adottivi, ma comunque sempre amati e curati.
Un neonato, un bambino, un adolescente, ha bisogno di tutto e non è in grado di provvedere da solo a se stesso, né sul piano materiale, né su quello etico e spirituale. A lui penserà la sua famiglia, ed è per questo che la famiglia deve essere protetta dallo Stato.

Nel contesto italiano, un intervento in materia di unioni civili e matrimonio,  dovrebbe prevedere tutti i provvedimenti necessari a restituire ai singoli che vivono una relazione omosessuale stabile quei diritti e quelle libertà di scelta che l’attuale bulimia legislativa ha fagocitato.

Chiudiamo con un esempio di natura fiscale. Sul piano delle detrazioni, il sistema italiano è oggi particolarmente iniquo. Oltre che, giustamente, per i figli, sono previste detrazioni non solo per il coniuge a carico, anche se non convivente, ma anche per nipoti, genitori naturali o adottivi, generi e nuore, suocero e suocera, fratelli e sorelle, anche unilaterali, nonni e nonne. Per contro, il partner di fatto, omosessuale o eterosessuale non può detrarre alcunché anche se deve mantenere il compagno o la compagna convivente.

C’era una volta il vecchio web

Nella prima metà degli anni ’90, le tecnologie informatiche e internet erano ancora uno strumento per pochi.

I computer avevano iniziato a popolare le scuole e le case di non pochi europei già da qualche anno, ma il loro utilizzo restava circoscritto a una percentuale irrisoria della popolazione, per lo più giovani o giovanissimi, spesso un po’ secchioni, necessariamente disposti a trascorrere ore e ore per trarre dal computer qualche piccola soddisfazione.

Non c’erano i social network, pochi erano i quotidiani provvisti di un sito web degno di tale nome, pochissime le aziende che riuscivano a proporre seriamente i propri prodotti online. Si comunicava, spesso faticosamente, per email, sui forum e nei newsgroup, magari nelle chat.

pcEra il vecchio web, senza regole imposte dall’esterno, senza l’ossessione di controllo dei governi, senza filtri e senza burocrazia.

Di soldi ne giravano pochi. Per la più banale delle operazioni occorrevano spesso ore di peripezie. L’uso di internet richiedeva tonnellate di pazienza, buona volontà e la disponibilità a studiare, capire, sperimentare.

Ogni nuova pagina sembrava poter svelare misteriosi segreti e aprire la strada a incredibili opportunità.

Oggi, a chi ha vissuto attivamente quell’epoca, può capitare di provare un po’ di nostalgia.

Ogni era ha i suoi vantaggi. Solo 15-10 anni fa, il web era sicuramente più grezzo, meno sofisticato, meno accessibile, ma anche più libero e più sicuro per tutti.

Oggi, internet è invaso dalle applicazioni, figlie delle tecnologie per i telefoni cellulari, facilissime da utilizzare, accessibili a tutti, o quasi. I contenuti sono accessibili e fruibili immediatamente, senza le lunghe attese del passato. Le transazioni commerciali online sono divenute la normalità. Al contempo, tutto è divenuto controllabile dai governi. Sono ormai decine di migliaia le persone finite in carcere nel mondo solo per aver espresso opinioni politiche sul web. Molti politici sembrano convinti che il semplice fatto che uno Stato possa tecnicamente controllare i cittadini, renda legittime forme di controllo che rischiano di distruggere qualsiasi parvenza di privacy.

Come sarà il web tra 10 anni? Sarà il terreno delle libertà o un luogo virtuale totalmente controllato da governi sempre più invasivi?